Death shall be chosen rather than life by all the residue of them that remain.
Jeremiah 8:3
è così che il fuoco sarebbe comparso, scorticato dal presente, dietro
l’ultima porta di una scelta: danneggia la strada con le buche, il torso
bacato della mela e il piatto col veleno, la statua senza capo, divenuta
immensa, e la continua oscillazione degli stralli. il rilascio dell’enzima
dal centro di comando al ronzìo dei droni, nel tempo che resta, prima
delle stragi, sarà di ciclica misericordia, somma totale e meno ricevuta
di una dentatura infinitesima. sapremo scegliere il pericolo, il decorso
di lumaca, della crepa incandescente: nella muraglia, il varco sul retro.

ovunque non potrai proteggere, dare singolarità, passi e corse verso
il riparo, a rotta di collo, e per sequenza, fossati, risposte e condizioni,
perimetri di somiglianza. così l’utenza celeste potrà, forse, attendere
il segnale. l’accerchiamento è nel luogo percepito dal peso, è la vena
più sdrucita nello sbalzo, è patina, pellicola per non vedere. la terrena
disposizione è data al morto rivestito sul bordo della vasca: difendere
nessuna casa, la rissa dell’erba, che rincrespa, la quiete degli androni
deposti ai piedi: manovre, nell’aria, per nuove esposizioni del disperso.

di noi ne troveranno altri più incapaci al bene, lì, dalla causa del sole
primo e poi per piena, conseguenze: da parte, non saremo noi a fare
cosciente assoluzione, disciplina, governo delle ossa, perdita costante,
definitiva estinzione dell’incendio. niente può andare via, per privilegio
ai pochi, in questo tempo necessario al suo fluire. la gravità è lo sfregio
a corto della guerra, se raggiunge il suo dispendio massimo, è l’atlante
del perseguitato, del raso al suolo, dal rovescio della veste: accaparrare
più di un posto alla tua mensa, con le mani legate, cancellazioni di parole.

l’apnea, ora, lo eleva a sacra rappresentazione: con cautela si propaga
nella memoria l’interferenza del fiato, seguita da spropositi, apici estesi
e imprecisioni di coscienza. soltanto dopo, in codici di forma equidistanti,
numerici, estesi al basso in verticale, costruisce opachi punti, fenditure
di presenza, cose pubbliche, cose nella parentesi che chiude, strutture
per salvare tempo, intanto, nel completo, intento a darsi al vero, astanti
mancanze delle ore nella riserva d’aria. restano dentro i fondali distesi,
la riemersione del possibile, e un ma, e un forse, e l’affanno che dilaga

su, nel durarne delle gambe, sarebbe ritornato, deambulando come un desiderio
destinato a uno scambio deformato e irreparabile. niente scuse, nè la promessa
di espellerne i resti, addormentandosi, e decretarne poi il passaggio della meta,
oltre la pagina, che lo rigonfia: è pelle rotta, e cartilagine, è la forza che dispiega
compressione e sacrificio dei ricordi, che li accresce, ed è ineguale. così rinnega
la testa in giù, l’arco disordinato della schiena, in posizione deiscente, la discreta
radice che ne inverte il divenire, che si riaddensa nella luce di natura, trasmessa
al termine, di nuovo se stessa: di rottami, a tonnellate, ancora calce nel cauterio.

toccherà ogni tanto guardare quanto intorno: chi circonda lo scasso della culla,
che tossisce e fa vedetta del vistoso crollo, essendone la conseguenza. diviene
solo uno il corpo del giorno, disamato, protratto a farsi scossa, identica risposta
a derivare in quanto lo precede. serve sostituire il loculo, il centro del bersaglio,
al più presto, e ritagliare, fare cicatrice, per non guarire più, ed essere sbaraglio
dei giochi, rivelazione e cloaca, degli anni ritirata incandescente, luce disposta,
salvata allo scavo. torneranno utili, forse, i pomeriggi soli, sfalsati, le cantilene,
l’atto di sfollare, assecondare le svolte, le crepe, il dopo, il solco che li annulla.

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