si era illuso che sarebbe partito tutto da una scazzottata, da una temporanea

discrepanza, proprio qui, dove c’è solo la pianura a fare la parte del probabile,

ultrasuono, la guerra e il blocco gastrico, il periferico ripetersi di questa litania,

l’amputazione, il tracciamento in perpendicolo, la scia dal campo al corpo nero:

passare in taglio per chilometri e chilometri di colpi il corridoio, l’effetto pacman,

l’aria cantabile dell’autunno, così da atterrare nella vertebra incrinata, divenuta

vetro, e nausea, stato di memoria, temporanea frattura, miliardo ingovernabile

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dopo aver toccato il teschio, l’indurirsi dei giorni, di se stesso la presenza in causa

e fine, sa di trasformare il niente con le mani: si apre la botola e così ci può cadere,

ma la presa che lo aggrappa alla caduta manca. il suo male è l’ordigno, è nell’innesco,

è la modularità dei nervi, il suolo irradiato nella fossa che lo inchioda: la foga lo rende

tutto intero, steso nel vano, in piega, e per quanto impieghi a risalire vede in replica

soltanto quel che c’è nel raggio del fondale. da smembrato, direziona gli arti in lembi

li stocca, e ricompone, e affonda la stoccata: più basso che alto, più morto ma vivo

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metro dentro metro, nella parete: dove si frange questa carestia del freddo, la scorta

automatica dei polpastrelli traccia nel continuo la sua prossima strettoia, nuovo sonno

dalle dita di rosa. la corda dietro la trave, che salva, e l’acqua divenuta rossa dimorano

in fondo all’antro che conduce al riparo: l’ordine è una discarica, è casa esplosa, sillaba

affondata nella gola, vertice della corteccia, cartolina senza luogo. dettano il metodo

le labbra aperte, gli occhi chiusi nel torpore, fuoco col fuoco al braccio della via frattale,

lo spazio di centro forato dal timpano, nel passo, l’addome vuoto, la vista scardinata.

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