“Non ho che poche parole per fermare gli attimi fissati in una luce da cartolina illustrata
e vederti agitare fra nastrini di sangue sulla fronte da pirata su un terrazzo
celeste, non mi ricordo se il cielo sta a destra, a sinistra o sotto di noi e i tentativi di spiegarti qualcosa,
forse una cosa terribile che rimandavo di parola in parola persino a me stesso.
So che al mio silenzio non ho avuto risposta perché non miravo mai al centro.“
V. Reta, da “Visas” (1976)
deve alzarsi, a un certo punto della notte, a progettare il giorno che viene. i vestiti sono appoggiati sulla sponda della culla, accuratamente suddivisi per sesso, taglia, condizioni del tempo. al contempo avverte una voce: un rumore di fondo, dall’origine posizionale incollocabile, a superare appena la soglia della quiete; forse esterno alla casa, alle strade antistanti, all’appartamento del piano sopra. gli addendi trascritti alla lavagna cancellabile, in soggiorno, disposti in linea per conseguire una somma, lo escludono dal gioco. dovrebbe, ormai, saperlo.
impara, alla velocità sostenuta sul punto di corda della rotatoria, che il tempo restante sarà interminabile. quel sobbalzo somiglia, in realtà, ad un allarme, ed è abbastanza forte da svegliarlo. ciò che lo riguarda si manifesta nel momento più lontano dalla percezione, seguitando a transitare, lentissimo, nel bianco celeste che filtra dalle asole della serranda. a scuoterlo, un veicolo pesante a passare sulla via davanti a casa, la percussione isolata degli pneumatici che colpiscono il chiusino posizionato sul lato destro della strada.
così vento e luce possono isolare l’interno dall’esterno: una pressione contraria a vista e udito, che fa convergere il sonno, la testa girata due o tre volte ai centottanta gradi. ha letto, da qualche parte, che la velocità del vento può essere misurata in chilometri orari, o in nodi, se si viaggia in mare. con lo sguardo rivolto ai riverberi cromati dei faretti alogeni nell’incasso del soffitto, descrive a se stesso il vento e le sue raffiche lunghe, temporizzate, le finestre di rientro in cui sviluppa il suo silenzio, i rimbalzi, gli urti che produce contro le facciate dei palazzi popolari, la direzione modulata e flebile dei suoi rimbombi, simile a quella di un corpo che riceve una frustata.
instabile, insicuro, di pianura: tenendo un occhio chiuso, e l’altro no, predispone la faccia a girarsi verso la finestra ancora chiusa, a captarne l’intermittenza. di quel breve schiaffo che guida la percorrenza degli androni, le entrate principali e secondarie, i balconi pericolanti, apprezza l’immediato svicolare, in alto, o in basso, dal degrado. una foglia si produce in uno scatto di due metri, e poi di uno, fermandosi a quaranta centimetri dalla linea di arresto della carreggiata, in prossimità dell’incrocio. non entra nella stanza: è un’aria minore, incline ad esalare fiati, appena appena scompaginare gli arredi.
il colpo di reni mette il corpo in piedi. non lo può vedere, ma ogni tanto se lo immagina, a occhi socchiusi, nella banale penombra della stanza, perché gli piace. il mattino ha quattordici stazioni, gli elettrodomestici in assistenza, i colleghi, gli indumenti intonsi, identici al giorno precedente, a light air, i condotti d’aria delle meeting room, une trés légére brise: un qualcosa di anodino, impalpabile, un filo di fumo. all’improvviso l’equivalenza in italiano che potrebbe tradire altri significati, altri libri da chiudere di scatto.
good morning, captain. il viaggio evade soltanto per un punto di luce, nei tempi morti dell’ascolto, per posizioni sempre più rinunciabili, dando corda a chi ti è seduto di fronte, a chi aspetta di lato, alle persone a cui cedere il passo, senza ignorare nessuno, provandoci. al largo della banchina, nella calca in attesa, getta un’occhiata non troppo distratta alla ruggine dei binari, al pietrisco puntellato di mozziconi, stuzzicadenti, resti di cibo: lì, di fianco all’orizzonte, si dispongono massi, tralicci, muraglie in cumuli diseguali.
cambiarli, per adesso, non è possibile. loro sono sempre gli stessi: i trasporti sono fluviali, formano rilievi, apici e gobbe sormontando il terriccio risorgimentale delle linee inoltrate alla prossima stazione. può seguire le crepe dell’asfalto, gli spigoli dei marciapiedi, le pozze d’acqua, i profili dissestati degli edifici, uno sull’altro, le attaccature che separano gli isolati, la posizione involontaria dei passanti. sa che l’usura del tempo intacca soltanto le intersezioni, le spaccature che lasciano intravvedere il retrostante, il paesaggio disegnato, retto da puntine colorate che mano a mano si diradano, cadendo.
il tragitto, anche oggi, è porzionato, fatto fuori, strato a strato, preso nelle ossa: esiste e si sfilaccia, un passo dopo l’altro. si appoggia alla maniglia della porta, che appiccica, mentre in apparenza si concentra. in secondo piano, fuori dall’argine, dalla flessione inappagata dei corpi, il colare perpetuo del cemento. si scosta, finalmente si stabilizza, sale e scende dallo spazio aperto, fissando una finestra illuminata, una feritoia incerta, privata, divenuta ottusa e indeclinabile. anche stavolta, dietro il buco della serratura, non c’è più nessuno.
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