ancora qui a inforcare l’ombra, nel cerchio: traiettorie in traccia al presente,

o figura piana, latenza del crinale. nel giorno rimasto a piedi, che sussulta,

e reclina, aprendosi in pari con la frana, ritorna, per azione e indisciplina,

disapplica scadenze, preterizioni, decelera il pugno dritto al viso, innalza

un declino per ciò che deve così rimanere. frequente si irradia nel gestire

la predica, che incalza, nell’appariscenza, con l’arma, che porta addosso

per la strada che conduce altrove: prende una pausa alla speranza, assorbe,

apre la bocca, che riflette e fa dispersi, rileva tutto quanto vieta al transito,

ne avvolge l’arresto in rampe di luce; rilascia il crampo, nella mandibola,

dai tentacoli di quello che impedisce al dire. sa che procederemo, quindi,

per tentativi, a stanarlo dalla buca: è l’accecato, che conta fino al venti,

e poi al dieci, e se riceve se stesso come pericolo, in apertura alla porta,

punta e scatta, sa di essere marcato nel tempo di una scelta; e per quanti,

e perché, e fino a quando, e che farne qualora li sentisse ritornare a casa?

chiede se abbiamo la registrazione a circuito chiuso dove c’è lui che spara,

di nuovo, davvero, che l’hanno visto ridisceso nella luce, dove c’è lui che

spara, di nuovo: per l’angolo vuoto di una percorrenza che ancora non sa

dovere, dimenticare. e quanti, ma non tanti, allora, in escursione ai nervi,

e perché ce l’hanno, e fino a quando sentirli remoti, altre dispersi, strappi

nelle reti, stereoscopie, concause del ritorno a non divenire il circostante?

conoscono l’iterazione diversa del sogno, ne estraggono chi sono diventati,

al trapassare, portandosi alla tana, che come lampi potranno, volendo, fare

a gara nel rincorrersi, se chi li accosta sa che il buio poi non è così lontano.

instabile diventa, per se stesso, informe e quotidiano, ellisse e coordinata

di quel transito che non potrà, davvero, crediamo, poi portarlo chissà dove.

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