sentiremo l’acqua splafonare dai chiusini, l’asfalto in perdita appoggiando i piedi,
in nullità del nostro ieri potremo allora farne vuota cernita, recapito, inelastica
pazienza, capire rapidamente il possibile, l’accaduto, il domani. nella presenza
non reciproca saremmo divenuti testata d’angolo, sottrazione del medesimo,
avremmo annotato la corrente del flusso come un dato telemetrico, a scorci,
per cali di tensione e repentini sbalzi, ricorsi, scatti del datario: avremmo armato
la dinamo sulla ruota davanti, con calma spostando l’acqua ai lati della strada,
senza disporre più di fiato, facendo quantità delle lapidi, corsa ripida, a ritroso,
recuperando strade e smottamenti, estinti i fuochi e l’energia dispersa ad ogni
curva. e dire che se sparavi, che se avessi sparato – spirava – spariva, sarebbe
sparita, cambiando colore come edema; nel pieno della calca avrebbe avuto
certo più importanza il perderne memoria, l’ora trascorsa ad agitarsi nel vano,
delle malinconie la più fitta, la più scollata dai passi della preventiva e della fine.
in questo modo sarebbe successo lì, proprio in mezzo alla via deserta, senza
lo spazio e il tempo dei riferimenti: la più trafitta, avrei preferito, al centro
del corpo un colpo secco, che togliesse il fiato, e la speranza, senza scampo
o stremo, a replicare quanto è stato per tutti gli anni a venire, nelle intenzioni
della barricata. al peso, che è grande, e sia lodato, apporre la proporzione esatta
della ruggine, l’ipnosi spiegabile, serrata a lenire il senso obliquo della penombra.
sicuro al gioco del silenzio troveremo modo di spiegare il gelo della tua precisa
permanenza, la via ignifuga, a mano aperta lo schiaffo, la violenza che preme
si capisca, vicino il cerino, messo ancora lì a fare fumo, ad annientare il bianco
della vista: così non capiremo più nulla, non sapremo fare sciopero, né chirurgia,
sentiremo l’acqua splafonare dai chiusini, l’asfalto in perdita appoggiando i piedi.

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