con occhi sugli schermi, e schemi per gli occhi andati
a destra, quando il passaggio di emisfero inverte
il giro delle acque, della saliva, visti uscire
nel riflesso della condizione, fatti schermo
nei percorsi e nei cunicoli, apposti come elenchi
del noto, di nuovo
a comprimere il punto di una fuga, il quadro,
il livello delle acque che oltrepassa ogni parametro,
il piolo mancante, la botola, in ogni caso
l’infortunio, la causa corporale, il sangue
in aspersione al punto in cui si chiude la vocale;
zero killed, l’impressione degli occhi sugli schermi
e negli schemi, liberi come dopo un colpo
alla schiena ricevuto da qualcuno che precede,
come quando chi sta davanti a te
è il nulla esteso, espanso di te,
e gli occhi stanno sugli schermi e gli schermi
dentro agli occhi per dire e dirne il senso
lugubre dello sfibrare, della genetica ridotta,
rotta e messa in muta, sedata e ricomposta
dalla noia, nulla di te, nessuna emulazione
che schermi a nero la danza del presente;
ogni schermo sta come negli occhi e, teorizza,
degli occhi sta come relitto, moto vago
per la sua sostanza, istanza stessa della sosta,
misura accelerata a valutare l’uovo
e quel suo primo derivato, intenta a scegliere
fra krill e planctus, destinata a un altro
patire e alla pazienza, al pianto rimediato
e senza rimedio, esposto in mesi e mesi di vasi
capillari, nella misura accelerata di occhi
e schermi, di occhi che lasciano passare il lutto
intero nel decimo del giorno, decima volta
della stessa causa processata dalla vita;
e poco dopo il nulla esteso, espanso di te,
che sta davanti a te, che abiterà nella tua casa
di generazione in generazione, a procreare
e stendere sostanza di quel nulla, nella stessa
casa si renderà completo e altro, eroso
in ultimo nella cartilagine, costruirà
con gli occhi negli occhi una struttura mobile,
legata e posta nell’oblio per battere lo spigolo,
soltanto, e rompersi le dita, le giunture, essere
causa della grande morte cellulare,
emergere nel legamento che procede in nota
al confine, nella notte che confida,
che è agita dal silenzio come un nulla esteso,
esploso di te, che nello schermo
sta paziente, guarda dritto negli occhi:
in quella stessa casa di gangli, di ricettori “maschio”
e “femmina”, di dovresti riuscire a convincere lui,
di chi ha preso nota nel più feroce dei modi,
nel fatto che il domani prosegue a fare fuoco,
a fottere, fornire tempo; la foto a nove
anni, a novembre, dentro
la fornace, che si giudica e condanna
mai passata al giudicare; la foto a nove
giorni, a novembre, nel grande
corpo cellulare, la porzione prossimale,
poi distale, termina tecnica, inflàta
il niente, prende a fare fuoco; la foto a nove
giorni, una splendida porzione,
assomiglia alla chioma di un albero,
ti si rivolge con la testa girata a cento
ottanta gradi, volta a nord
del sistema nervoso centrale.
(testo pubblicato in: Totilogia. Involatura sulla poesia di Gianni Toti, Diaforia, 2014; dove mente il fiume, Edizioni Prufrock spa, 2015; divided by zero Edizioni Prufrock spa, 2018)
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